21 agosto 2006

GIRO D'ITALIA, OVVERO: VACANZE MORDI E FUGGI - ANNO 2005

PRIMA TAPPA: CAPRAROLA, Antica trattoria del Borgo... ex Zi' Franco.
Reduce dalla polmonite che mi ha tenuto prima in ospedale e poi a casa per due mesi (impedendomi di programmare delle vacanze “vere”) ci buttiamo nel turbine delle vacanze “mordi e fuggi”, piccole divagazioni di uno o più giorni (ma non più di 4).
La prima tappa delle vacanze “mordi e fuggi” è il Palazzo Farnese di Caprarola,
commissionato da Alessandro Farnese ad Antonio da Sangallo, con affreschi del Vignola. E’ tuttora in fase di restauro il vasto mattonato del piazzale panoramico, con la splendida visuale che spazia, da sinistra, dal monte Soratte all’arteria centrale (la Via Diritta, di 680 metri, ad opera del Vignola, che rivoluzionò l’urbanistica del paese ), lungo la quale si adagia, sui due lati, il paese di Caprarola, per terminare, a destra, con la visuale della facciata delle scuderie di Palazzo Farnese, opera anch’essa del Vignola. Dopo aver visitato le varie stanze del piano nobile del pentagonale palazzo, con le sale affrescate ancora dal Vignola e dai suoi allievi, con, su tutte le altre, la splendida Sala del Mappamondo , con carte geografiche dipinte all’inizio del ‘500 ma con i confini mondiali già perfettamente delineati, si passa a visitare il grande e fresco parco che culmina con la scalinata, dominata dalla fontana dei tritoni ed il giardino della Casina dei Piaceri. Fattesi oramai le 13 e 30, ed avendo ormai un discreto languorino, ci si presenta il dilemma della scelta: si pranza sulle sponde del lago di Vico, da “Zi’ Catofio”, o si segue la voce dei ricordi e del cuore, che ci porta da “Zi’ Franco”?, locale ora gestito dal figlio Alessandro dopo aver eseguito, circa due anni fa un modesto restiling, anche per quanto riguarda il target del locale: ora, pur continuando a proporre piatti del territorio Viterbese, si è un po’ persa la “rusticità” del locale, con Zi’ Franco che il sabato e la domenica “allietava” i clienti con poesie e canzoni a fine pranzo. Il locale, grazie alla estrema cortesia e disponibilità di Alessandro, con la parlata dalla caratteristica cadenza viterbese, continua ad essere caldo ed accogliente, sia nella sala interna, dominata dal grande camino, sia nella panoramica veranda, con vista sul verde canalone su cui sorge Caprarola.Naturalmente avrete capito che abbiamo scelto “Zi’ Franco”, anche se il locale è ora rinominato “Antica Trattoria del Borgo” (Via Borgo Vecchio 107 - 0761 645252, con la vecchia dicitura “Zi’ Franco” che rimane sotto la nuova scritta, un po’ come nei simboli dei partiti politici italiani dell’ultimo decennio, nei quali appare in piccolo la vecchia denominazione del partito, tattica “acchiappanostalgici”). Si va a colpo sicuro, malgrado la calura e saltando gli abbondanti antipasti, sulla pasta e fagioli e sulla zuppa di funghi (entrambe magistrali e ben accompagnate da fette di pane a bruschetta) e sulla classica fettuccina ai funghi porcini, anche se resa più leggera dal fatto che, in sostituzione della abituale panna, viene utilizzato il latte per legare il condimento. Non ci sarebbe già quasi più posto nel pancino ma, con uno sforzo di volontà, mi lancio sul filetto di maialino con lardo di Colonnata e pepe rosa (tenerissimo e veramente gustoso) mentre le mie due donne si dividono, con complicità tutta femminile, un gran misto di carni alla brace (salsiccia, coscio di pollo ruspante con sopracoscia, braciola di maiale, tranci di abbacchio e vitello), il tutto adagiato su un letto di insalata con pomodori Pachino. Di contorno un piatto con 5 fettone di melanzana grigliata ed uno di “patate alla paracula”, tagliate finissime, con tutta la buccia, e cotte alla brace con erbette e spezie. Il tutto è stato innaffiato da un Ramitello 2001 di Di Majo Norante (al modico prezzo di 13,00 €, in enoteca si trova a non meno di 9), vino con una buona struttura e notevoli sentori di frutti rossi, cuoio e liquirizia (di cui si percepisce nettamente il dolce sentore, quasi se ne stesse annusando un nero bastoncino), vellutato ed equilibrato al punto giusto per accompagnare nel migliore dei modi sia i primi che, soprattutto, le carni. Qui si nota un particolare del nuovo indirizzo del locale: a differenza di qualche anno fa, quando si beveva tutto in un singolo bicchiere, il buon Alessandro, appena presa la comanda, toglie i piccoli bicchieri da vino e ci porta tre bei balloon per il Ramitello. Con tre bottiglie di acqua “demineralizzata”, due caffè ed un vassoio di graditissimi tozzetti, rigorosamente caserecci, e di meringhe con le nocciole della campagna viterbese, un totale di 77 euro, di nuovo molto ben spesi.Nelle immediate vicinanze non mancate di visitare Ronciglione, Nepi e Sutri, terra di ottimo pane e belle donne, con il suo Mitreo ed il particolarissimo Anfiteatro, per non parlare di una riposante passeggiata sulle rive del Lago di Vico e della sua riserva naturale.Sfidando la palpebra calante mi ributto nell’afa romana in attesa della seconda tappa del “Ristorant Tropy”. Continua…….


SECONDA TAPPA...: PANICALE – LILLO TATINI
Lo scorso Sabato, dopo aver riportato i suoceri nella natia terra compresa tra quel di Chiusi e quel di Castiglion del Lago, concedendomi una rilassante pausa (soprattutto “acustica”, dalla suocera) e percorrendo tranquillamente la campagna umbra con la macchina, ho potuto assistere ad un fenomeno che ha, a dir poco, del paranormale. Eravamo indecisi se provare per la prima volta il ristorante di Chiusi, La Solita Zuppa o tornare a gustare il brustico (pesce di lago arrostito su un fuoco di canne di lago, filettato e condito con erbette ed aromi) Da Gino, in riva al Trasimeno o, in alternativa, provare la più rustica Da Zaira, sempre a Chiusi, ma ci siamo tutto ad un tratto trovati prigionieri della nostra macchina che, come impazzita, ha iniziato a prendere la strada di Panicale, passando a tutta velocità tra villini e casette di piccole frazioni o tra campi di giallissimi girasoli. Quando finalmente si è fermata, alle porte del suddetto paesino, ci siamo resi conto che forse una forza sovrannaturale voleva che ci recassimo a mangiare di nuovo, come lo scorso anno, da Lillo Tatini, proprio di fronte alla ottagonale fontana della splendida e ripidissima piazza principale. Messo l’animo in pace e oramai tranquillizzati, abbiamo percorso le silenziosissime stradine medievali del paesino, fino ad arrivare alla tanto agognata verandina di Lillo Tatini. Subito ci accoglie, con la consueta gentilezza e l’accento tra l’umbro ed il toscano, Patrizia, la titolare del ristorante; ci fa accomodare nella fresca verandina e dopo averci portato gli immensi menù (sia per quanto riguarda la grandezza che la qualità) ci fa deliziare con il suo burro con alici e capperi, da spalmare sulla classica bruschetta di 2 fette di pane e due paninetti (uno al formaggio ed uno alle noci), la particolarità sta nel fatto che il burro viene servito nel tappo capovolto di una caraffa piena di acqua calda che lo ammorbidisce e ne esalta il sapore. Io opto, questa volta, per il menu fisso “Sapori del Trasimeno” (€ 33,00) che prevede un antipasto (“Ricetta di Baiocco”) a base di fagiolina del Trasimeno (un legume che è una via di mezzo tra fagiolo e cece, in pratica, all’aspetto, una sorta di fagiolo cannellino della grandezza di poco più di una lenticchia: è un legume che da pochi anni è stato recuperato giustamente dalla coltre d’oblio che lo aveva colpito) con mini quenelles di aringa affumicata e dadolada di pomodori ciliegini e rucola; un primo piatto (“Reti dei pescatori”) cannelloni in pasta ripieni di coregone, pescato del Trasimeno, su letto di zucchine in dadolada e spolverata di bottarga di muggine, ed un secondo (“Magico Incontro”) di filetti di coregone in cartoccio con funghi porcini e spezie; la mia compagna opta per un pasto alla carta: “Elmetti di Boldrino” (€ 10,00) cappellacci tradizionali ripieni di carne di agnello con sugo bianco ai carciofi (fa i complimenti alla cuoca), e per secondo “Masolino lo mangiava così” (€ 16,00), tenerissimi straccetti di filetto di vitellone cotti nel Sangiovese, con prugne e lardo di Colonnata, il tutto guarnito con un cestino di pasta di pane al rosmarino pieno di fagiolina del Trasimeno: questo piatto la lascia a dir poco senza parole.......: CI PORTERO’ A MANGIARE LA SUOCERA, HAI VISTO MAI !!!!. Di dolce, ormai al limite dell’umana capienza per quanto riguarda il mio ben rodato stomaco, optiamo per un dolce al cucchiaio splendido, da dividerci: “Le palle di San Michele”: due palle di gelato allo zabaione ed amaretti sbriciolati, il tutto coperto da colata di caramello, in cui i sapori (oltre che gli ingredienti) si amalgamano alla perfezione (anche se alla lunga può essere un po’ stucchevole). Il mio menù è accompagnato da un bicchiere di Falanghina Ra’mi di Di Majo Norante che mi ha fatto scervellare per tre o quattro minuti: non riuscivo ad individuare uno dei profumi che emanavano dal dorato liquido, pur collegandolo a qualche sapore della mia infanzia (anche alla mia compagna ricordava qualcosa che era collegata al nonno). Dopo poco l’illuminazione: il vino, acquistando temperatura, stava sprigionando, chiarissimo, il profumo misterioso.....: il sapore delle bananine Perugina, quei cioccolatini a forma (e con ripieno) di banana ricoperti da carta dorata che hanno riempito la mia infanzia. In più profumo di ginestra, ananas e retrogusto erbaceo: un ottimo vino per accompagnare pesce di lago. Per la mia compagna un più robusto Morellino di Scansano Val delle Rose D.o.c. Riserva 2000, profumato, intenso e molto ben equilibrato, vista la presenza dell’agnello e del filetto di vitellone (entrambi i bicchieri € 3,00). A questo punto posso tranquillamente incollare il finale della mia recensione dello scorso anno visto che è praticamente identico (questa volta ho speso € 70,00 e non € 69,50, ma non posso certo dire che abbiano aumentato i prezzi!). Eccolo quindi “incollato”: “...il tutto a 69,50 euro, compresi acqua e due caffè serviti in amene tazzine di cotto bianche e verdi, con coperchietto in tinta, e zucchero in bustine a forma di piramide (tipo il latte in tetrapak che si trovava negli anni ’70). Non è poi molto per due ore di Paradiso e, soprattutto, ….senza suocera. Sicuramente Lillo Tatini è una splendida conferma (ci vedrà anche il prossimo anno sulla sua verandina). Alla prossima tappa....


TERZA TAPPA: CRONOMETRO – GELATERIA TORCE’
In vista del tappone dolomitico (consistente in 9 giorni a stretto contatto con la suocera (Cima Coppi), ed i suoi banchetti di nozze.... pardon, pranzi) e dopo le prime due tappe delle vacanze mordi e fuggi, la prima (Caprarola e Zi’ Franco - Antica trattoria del borgo) e la seconda (Panicale - Lillo Tatini), è giunta l’ora di una tappa a cronometro. Ancora al lavoro si fa la pausa pranzo alla gelateria di Claudio Torcè in Via dell’Aeronautica 105, vicino il laghetto dell’EUR (ovviamente Roma), segnalata, peraltro, sul numero di Luglio 2005 del Gambero Rosso. La mia gara consiste in un cono da € 1,5 (3 palline) ai gusti, udite udite, di Pera, Porto e Mandorle – Pera, Uvetta e Chianti – Limone e Pepe Nero; Claudia tenta il tutto per tutto con Zenzero e Cannella – Uva Passa e Noci – Ricotta, Cioccolato e Cocco Tostato. Si può, comunque, scegliere tra ben 100 gusti (20 per ognuno dei 5 banchi disposti in fila nel semplice negozio non c’è neanche l’insegna fuori e fa angolo con il giardino dell’attiguo palazzo e, per la precisione: 20 di frutta, 60 di creme e 20 di cremolati e semifreddi, con le punte ardite di Provola, Peperone, Bruscolini, Anacardi, Sesamo, Pomodoro e basilico, Philadelfia, Fantasia di Bronte (pistacchi e pinoli) ed una decina di varietà di cioccolato, oltre ad altri 90 gusti che non ricordo più data la particolarità degli ingredienti, la prossima volta prendo appunti. Il bello è che il nostro amico gelatiere continua nella sua ricerca del gusto perfetto in quanto, secondo lui, tutto ciò che è edibile può essere trasformato in gelato (per i sorbetti alla frutta è ancora più facile: basta usare almeno il 50% di frutta poi zucchero e acqua). Il gusto è veramente sorprendente: sia limone e pepe, che zenzero e cannella sono veramente una beatitudine per il palato. Cosa dire poi della pera al chianti con (vera) uva sultanina o la torta di ricotta al cocco? Penso proprio che, giorno dopo giorno, riuscirò a provare tutti i cento gusti offerti.... sempre che il buon Claudio non voglia, nel frattempo, arrivare a 200!!!! E il giro d’Italia mangereccio continua.........


QUARTA TAPPA: BAGNO VIGNONI, saltando la menzione della “cima Coppi-pranzo della suocera”.
Dopo aver affrontato il tappone dolomitico del primo pranzo casalingo preparato al nostro arrivo dalla suocera (pomodori al riso grandi come meloni e pieni di un impasto inqualificabile a base di (in rigoroso ordine di presenza di ingredienti) aglio, conserva di pomodoro, riso spappolato ed olio, (per non menzionare lo zucchero che ha messo al posto del sale!!) e per sfuggire alla “sindrome da ingrasso del porco” che da sempre ha colpito la suocera stessa (nella fattispecie il porco, come al solito – e, preciso, sempre culinariamente parlando – sarei io), consistente nella preparazione di torte al cioccolato per colazione o pietanze rigorosamente tutte a base di aglio tritato o di sughi “parmigianatissimi”, ci siamo dati alla macchia per un paio di giorni e siamo riusciti ad andare a visitare, anche se sempre con seria difficoltà deambulatoria, Bagno Vignoni ed Orvieto. La quarta tappa di queste vacanze mordi e fuggi 2005 è quindi, dopo una breve sosta nella sempre carina San Quirico d’Orcia, la tanto splendida quanto piccola Bagno Vignoni.
Si parte da Castiglione del Lago con un cielo limpido come non mai (tenete presente questa frase perchè alla partenza la suocera insiste per farci prendere gli ombrelli). Attraversando il meraviglioso scenario delle colline toscane, fatte di campi di grano (ormai mietuto) e filari di cipressi a coronare viali che portano a maestosi casali (ormai quasi tutti di proprietà inglese, belga o tedesca), si arriva a Bagno Vignoni, piccolissimo paesello, costituito da non più di una decina di costruzioni (di cui almeno 3 adibite ad albergo termale e 5 a ristorante-trattoria-paninoteca) e da una piazza-vasca termale. Si, proprio così: la piazza principale del paese, “Piazza delle sorgenti”, consiste in una vasca rettangolare, lunga più di una cinquantina di metri e larga una trentina, che contiene la sorgente originale dell’acqua termale calda che esce dalla falda sotterranea di origini vulcaniche a 52°. Tutt’intorno la vasca una strada lastricata in pietra e case in mattoni rossi e pietre. Dalla vasca termale centrale parte poi una rete di canali scavati nella roccia in epoca medievale che, dopo essere confluiti in una prima vasca di decantazione, portano l’acqua termale fuori del paese (detto così sembra chissà cosa ma si tratta di un centinaio di metri) e creano una serie di cascatelle che, scendendo dalla collina in cima alla quale sorge Bagno Vignoni, vanno a confluire in più vasche nelle quali è possibile fare bagni e fanghi (ovviamente erano tutte piene di turisti per il 95% stranieri). Il paese merita veramente di essere visitato, oltre alla particolarità architettonica che lo contraddistingue, anche e soprattutto per il panorama che offre. Proprio a Bagno Vignoni abbiamo scelto di pranzare al ristorante La Terrazza (appunto il ristorante-terrazza dell’Albergo Le Terme). Il posto in cui ci troviamo nutre più la vista che non lo stomaco, visto che ci troviamo a 5, 6 metri d’altezza proprio a metà del lato lungo della piazza-vasca termale: il colpo d’occhio è splendido e ci offre la vista di tutto il paese, delle colline circostanti e di splendidi nuvoloni nel cielo azzurro (anche se cominciano ad essere un po’ minacciosi.... : la gufata della suocera, invidiosa di tutti i nostri giretti, sta iniziando a sortire effetti). In 4 iniziamo con lo scegliere una Bruschetta del Borgo (normale bruschetta al pomodoro su pane integrale) ed un piatto di verdure grigliate; poi 2 fettuccine ai porcini e 2 maltagliati al germe di grano su salsa di zucchine (le porzioni, al primo impatto visivo, non sembrano abbondanti ma saziano); di secondo un pecorino cotto, tipo scamorza, alla griglia con crosticina croccante e saporita, un pecorino con pere e cannella (anch’esso alla griglia ma più delicato e senza crosta), una non memorabile porzione di ceci all’olio (più gustosi quelli mangiati a Lucca qualche tempo fa) ed una di patate al forno. Di dolce una panna cotta con frutti di bosco ed uvetta (bella la presentazione su base di salsa ai frutti di bosco con acini di uva, scaglie e spolverata di cioccolato) e 3 caffè. Da bere 2 bottiglie di acqua e, al bicchiere, un Morellino di Scansano Greto delle Fate 2003 (€ 3,00) ed un Rosso di Montalcino Poggione 2002 (€ 3,50). Il servizio è cortese ed abbastanza veloce, non così la cucina... un po’ “comoda” nello sfornare i piatti. Il tutto per 64 euro (il pranzo in fin dei conti non è male ed il colpo d’occhio li vale tutti). Si fa poi una capatina alla splendida Abbazia di Sant’Antimo (nelle vicinanze di Montalcino - me la ricordavo più vicina... il viaggio è durato più di mezz’ora tra curve e dossi), che ha la particolarità di avere le mura in onice per cui la sera, dall’esterno, si intravede il chiarore delle luci delle candele che sono all’interno quasi le mura stesse fossero trasparenti. L’abbazia è circondata da vigneti (non per niente siamo nella patria del Brunello) e da verdi colline. Tra l’altro in una frazione vicina a Sant’Antimo, circa 25 anni fa e malgrado la verde età, ho avuto l’occasione di fare una delle mangiate più pantagrueliche della mia vita in una osteria di paese (ricordo ancora le zuppe di farro e di porcini, le fettuccine, il cinghiale in umido che si scioglieva in bocca ed un dolce finale a base di rondelle di mela spesse meno di mezzo centimetro e messe a macerare per mezza giornata sulle quali venivano “buttate” cucchiaiate di ricotta fresca.... senza parole... promettevo già da piccolino). Il problema è che non ricordo dove fosse e mi riprometto di tornare in zona a cercarla. Poco dopo inizia a piovere e ci tocca tornare a casa, a subire la vittoria schiacciante della suocera.... “VE L’AVEVO DETTO CHE SAREBBE PIOVUTO!!” è la sua accoglienza.




QUINTA TAPPA: ORVIETO E CETONA.
La nostra ora d’aria (ovviamente non solo dalla suocera - ormai ho creato un mito! - ma anche dal suocero, giustappunto portato di corsa il giorno prima in ospedale per applicare 5 punti sulla sua dura capoccia, frutto dell’ennesima caduta), dopo due giorni di “congestione acustica”, oltre che gastrica, consiste in una fuga verso la splendida Orvieto. Dopo aver percorso tutto il corso e le decine di vicoletti tipicamente medievali che da esso dipartono, e dopo aver fatto colazione in un “bar della memoria”, lo definisco così perchè aveva esposte (ed ancora in mescita) bottiglie di Amaro 18 Isolabella, Amaro Cora, Wat69, W5 (introvabile da decenni), Ferrochina Bisleri, Don Bairo l’Uvamaro e Brandy Stock, ci dirigiamo spediti verso la piazza del duomo. Per la millesima volta sono stati tolti i ponteggi e la facciata della chiesa gotica si presenta nuovamente in tutto il suo splendore, con il suo commovente rosone ed i suoi luminosissimi mosaici.
Ad accoglierci, all’entrata nella piazza e proprio sulla scalinata laterale del duomo, una insegnante di violino ed un trio d’archi formato da tre suoi allievi (bravissimi). Entrati nel duomo ci dirigiamo verso la cappella di San Brizio dove il Beato Angelico, Benozzo Gozzoli, il Perugino e Luca Signorelli (scusate se è poco) realizzarono diversi affreschi. In alto, oltre le volte a raggiera, da ammirare l’imponente organo contornato da angeli. Fa rimanere senza fiato anche la Pietà, scolpita da Ippolito Scalza, che nulla ha da invidiare a quella ben più famosa, ma non più bella e toccante, di Michelangelo. La musica da camera diffusa in leggero sottofondo contribuisce a creare un’atmosfera particolarmente serena e quieta, malgrado i tanti turisti. A malincuore, essendosi fatta una certa ora, dopo aver curiosato nelle botteghe turistiche, facciamo ritorno alla macchina (il Pozzo di San Patrizio, ai piedi del monte su cui sorge Orvieto, lo rivisiteremo con più calma un’altra volta). L’idea è quella di andare a provare le famose polpette del ristorante del Convento di Santa Chiara, a Sarteano, come segnalato più volte dalla nostra amica Laura De Vincentis ma, dopo aver rischiato le fiancate della nostra macchina negli strettissimi ed angusti oltre che ripidissimi vicoletti del paese, pur non essendo giorno di chiusura, lo troviamo chiuso, mistero. Ripieghiamo, allora, pur di non dover tornare a casa dalla suocera (che pure dista non più di 10 chilometri!!!) sulla caldissima ed assolatissima Cetona, dove troviamo il Ristorante Osteria Vecchia, un locale di stampo rustico con pavimento in cotto e travi di legno scuro sul soffitto. Ci accomodiamo e prendiamo due bei piatti di “pici co’ la nana” (anatra) ed una zuppa di farro (forse un po’ sciapina per i miei gusti); di secondo mi butto su una bella fiorentina, intesa come bistecca (...e fortuna che la suocera mi aveva riempito nei giorni precedenti!), in verità la crosticina che la carne deve fare una volta messa sulla piastra arroventata, in un angolo della bistecca era un po’ troppo “crosticina” e la bistecca risultava (un po’ troppo) salata, evidentemente da una sola parte. Per le mie donne un bel paio di antipasti misti di verdure e salumi. Non possiamo fare a meno poi di prendere delle belle fette di dolci: due di crostata di pere e mele, ed una di torta della nonna con crema, pinoli e cioccolato fondente (entrambe una squisitezza). Come vino, avendo scelto quello della casa, ci è stata portata una bottiglia di Vigne Rosse di Ravazzi, un onesto IGT a base Sangiovese Grosso 100% (a soli 6,00 euro, ricarico nullo). Un’acqua e un caffè (fondamentale per non dormire alla guida al ritorno) per € 75,00. Niente di eccezionale ma, in fin dei conti, non abbiamo mangiato poi male, i pici e le torte meritavano e la bistecca (vera fiorentina) è costata solo 16 euro, pensavo di più. Facciamo appena in tempo a tornare con calma a casa, prima della solita spruzzata d’acqua quotidiana (vabbe’, questa volta non dico che sia stata la suocera a gufare) ma non riusciamo ad evitare le sue solite lamentele, di rito ogni volta che io e Claudia si va da qualche parte: ogni volta che cediamo al suo interrogatorio e le diciamo dove siamo stati, lei si rivolge al marito e lo rimprovera: “Ecco, sono cinquant’anni che veniamo qui a Castiglione del Lago e tu non mi hai mai portato da nessuna parte, eccetera eccetera...”.
P.S.: Non la porteremmo pure con noi (ovviamente imbavagliata e legata!) ma non possiamo aspettare ogni volta che si esce che lei abbia finito di pulire a specchio tutta la casa (cosa che fa da mattina a sera), si sia cotonata i capelli ecc. ecc.. Il pomeriggio, con lei, non si riesce ad uscire prima delle 18 e la sera finisce di pulire la cucina soltanto poco prima di mezzanotte (giuro che questa volta non scherzo: sto dicendo il vero).
P.P.S.: a pochi chilometri da Cetona (oltre al piccolo museo civico per la preistoria) non potete mancare di visitare (anche perchè la ragazza che ci ha fatto da guida un paio di anni fa era veramente carina), il suggestivo Parco Archeologico di Belverde e le 25 grotte preistoriche (fra cui quella di San Francesco), uno degli insediamenti più antichi del Centro Italia, risalente addirittura a 40.000 anni fa.
Ed ora...... il Tempio di Giove Anxur di Terracina.


SESTA TAPPA: TERRACINA.
Finalmente un po’ di mare: dopo la polmonite ho dovuto aspettare un po’ di tempo per “mostrare le chiappe chiare” come diceva la canzone di “Ferriana” memoria, ma un mozzico di mare sono riuscito a strapparlo. Si va qualche giorno nella vicina Terracina. Dalla cima del Monte Sant’angelo, dove sorge il tempio di Giove Anxur che con il suo maestoso criptoportico domina tutta la Piana Pontina, dal promontorio del Circeo alla catena dei curiosi Lepini, alla amena Sperlonga e fino alla montagna spaccata di Gaeta, offrendo anche uno splendido affaccio sulle Isole Ponziane, paradiso marino laziale, si può notare quanto sia esteso l’immenso paesone (o la piccola cittadina) di Terracina, le cui origini risalgono addirittura al 400 a.C.. Meravigliosa, e veramente incantevole soprattutto con la tenue illuminazione notturna, è la parte antica della cittadina laziale, abbarbicata sulle pendici del Monte Sant’Angelo, in cui sono degne di essere menzionate le rovine (peraltro ben conservate e valorizzate appunto dall’illuminazione soffusa) del quadrifronte Arco Lapideo dell’ingresso sulla via Appia, la piazza del municipio, ancora con l’originale basolato romano della Via Appia ed il Foro Emiliano; su questa piazza si affacciano la bellissima Cattedrale di San Cesario, Palazzo Venditti, la “Torretta” e...una bella gelateria; degne di nota anche Porta Romana, Porta Nuova e Porta Maggio. A Terracina, lungo il litorale dall’acqua cristallina (ma non incantevole come quella della piccola baia del porto di San Felice Circeo, popolata da milioni di lattarini e pesci di tutti i colori anche a pochissimi metri dalla spiaggia, ma dove ho dovuto assistere allo “scempio” di una futura “velina-ninfa degli scogli” che si stava facendo fare un servizio fotografico in pose degne della Duse ma rigorosamente in nudo integrale, coperta soltanto da una tunica prima e da una collana con perizoma poi; da notare che il fotografo era... la madre). Dicevo, Terracina, specialmente di sera, è tutta una sfilata di presunte e sedicenti Miss Italia (beato chi ci crede) su tacchi vertiginosi e con gonnelline più piccole di un Gronchi Rosa. In effetti di abbondante si possono notare soltanto i mille “rotoletti”, strizzati fuori dalle attillatissime e cortissime canottierine (tirate al limite della loro estensione), indossate dalle sedicenti di cui sopra. Unica cosa positiva della Terracina “bassa” sono le piccole bombe (fritte davvero in modo magistrale: ne puoi mangiare 3 o 4 appena prima di andare a letto e non ti si rinfacciano minimamente) ripiene di Nutella, cioccolato bianco o crema della pasticceria Creme Caramel, in Via della Vittoria. Dolce ricordo dell’estate, tra una “vasca” e l’altra, contribuivano a riconciliarci con il mondo dopo quelle inquietanti visioni di rotoletti e panzette. In una delle sere più calde (omettendo la citazione di un paio di anonime pizzerie) andiamo al ristorante “La Romantica”, lungo Corso Anita Garibaldi (grande rivincita femminile: il “marito” non è “titolare” neanche di un minuscolo vicoletto) nella parte antica, proprio dietro la Cattedrale. Optiamo per un tavolo all’aperto, in una piazzetta alle spalle del corso, dove sono apparecchiati meno di una decina di tavoli e...una tastiera, alla quale si accomoderà poi, a metà serata, il proprietario del ristorante che, pur chiamandosi Antonio Muto (!) è “proprietario” anche di una bella voce, con la quale intonerà evergreen di Modugno, Ranieri e Nicola di Bari.
Ma passiamo alle pietanze: in 4, io la mia compagnia con una figlia ed una sua amichetta, dopo esserci deliziati con il menu che riportava quattro o cinque strafalcioni tipo lettera di Totò e Peppino alla Malafemmena (tipo rompo invece che rombo, ecc.) scegliamo 4 primi diversi (in altri locali ci avrebbero fatto storie) e tutti e 4 si riveleranno gustosi e ben presentati: paccheri al filetto di spigola (leggerissimi e con un leggero sottofondo di limone a legare), linguine agli scampi (con uno scampo gigante a far scenografia), trofie con polipetti (accostamento insolito ma delicato e gustoso, tenerissimi i polipetti) e risotto alla pescatora. Tutti i primi, in giuste quantità, vengono serviti in coreografici (ma scomodissimi) piatti-fiamminga di ceramica con scolpiti a rilievo scampi, limoni e vongole. Di secondo polipetti affogati (che morte sublime), una impepata (nel vero senso della parola) di cozze ed un piatto gigante di patatine fritte per le ladies. Con 2 bottiglie d’acqua ed una di Falanghina D.O.C. della Cantina del Tiburno 2004 (dalla lunga persistenza e dal notevole sapore dolce di ananas e pera matura – 15€) un totale di 91 euro. Caffè ed un ottimo liquore d’erbe offerti. Una bella serata fresca in compagnia di tavolate di tedeschi ed inglesi, con piacevole sottofondo canoro di cui sopra. Circondati dalle tante presenze dell’antica romanità non possiamo che dire: “Hic manebimus optime!”, anche se la prossima volta (rigorosamente in due) voglio provare l’Hosteria del pesce, un locale con tavoli all’aperto, proprio a fianco dei resti romani, dall’ambientazione di sicuro impatto coreografico: pavimento in ciottoli ed erbetta, tavoli in vimini con candele e musica da “rimorchio” in sottofondo, il tutto con una parte del locale adibita a pescheria da cui escono le materie prime delle portate (non ho idea del prezzo medio perchè il locale sembra di alto livello, vista l’ambientazione, ma dopo un paio d’ore dal nostro primo passaggio tutti i tavoli erano pieni, anche con famigliole). Il dispiacere per il cielo velato per almeno cinque giorni su sette è mitigato dalla lontananza della famigerata suocera: pensate.... a Terracina riuscivamo a pranzare in modo soddisfacente anche con SOLE mozzarelle di bufala della zona e poco più.... cosa impensabile per la “banchettante” suocera. Da segnalare sicuramente il negozio di formaggi (da tutta Italia: di fossa, di grotta, Asiago, ‘mbriago, in foglie di noci, gorgonzola con goccia e al cucchiaio, ecc.) e golosità varie, tra cui anche bottiglie di produttori come Casale del Giglio, Firriato, Marco Carpineti e Cantina Villa Gianna (produttrice di un ottimo e frizzantino Circeo Bianco), con ricarichi ridicoli (non più di un euro la bottiglia): “La bottega di Via Sarti”, in Via Sarti 5, proprio a fianco di un immenso e frequentatissimo negozio di frutta e verdura dove ho potuto ritrovare, dopo anni, una splendida e dolcissima uva fragola.
Ora una piccola pausa, in attesa della tappa finale del Giro Turistico-Gastronomico d’Italia 2005 nella magica Venezia, per festeggiare il mezzo secolo della mia splendida metà del cielo.
Bacari...... stiamo arrivando.

SETTIMA TAPPA: TRE GIORNI DI VENEZIA
Dopo lungo peregrinare per l’Italica terra, ed alcuni suoi discreti ristorantini, siamo finalmente a Venezia, lontani più che mai dalla suocera (a proposito, il suo commento sulla nostra fuga romantica è stato: “Venezia: e che ci andate a fa’, l’avete già vista! Io andrei da un’altra parte”).
Eccoci dunque nella Serenissima (serenissima almeno il primo giorno: gli altri due è venuta giù una pioggerellina finissima, quasi impalpabile per fortuna, che non ci ha disturbato troppo ma ci ha costretti a girare per calli e campielli con indosso due impermeabili tipo saccone della mondezza). Ci “toccherà” tornarci, magari abbinando un ritorno anche a Padova ed un bel giro delle ville sul Brenta, perché abbiamo preferito girare per la città evitando musei e manifestazioni, che vedremo la prossima volta. Premetto che, culinariamente parlando, Venezia è un po’ terra di frontiera: si spazia dai piatti (soprattutto di carne) della tradizione veneta per arrivare a quello che il 90 per cento dei locali propone: lasagne, spaghetti all’amatriciana, tortellini al ragu, ecc. Cosa non si farebbe per accontentare americani e giapponesi, pur calpestando le proprie tradizioni.

Nautilus ??!! Mai nome fu appropriato...

Girando girando, il primo giorno, dopo aver preso possesso del delizioso appartamentino tra Ca’ Rezzonico e l’Accademia, in quello che sembrava il Campo de’ Fiori di Venezia, vista la presenza di locali per giovani, bar e ristoranti (l’Antico Capon), ho calato le difese per un momento e fidandomi un po’ troppo della mia compagna, siamo inciampati (non essendo rimasti colpiti dal menu de Le Testiere – solo tre primi in carta con secondi un po’ troppo elaborati ed a prezzo un po’ troppo altino: saremmo andati, con il vino, ben oltre i 100 euro) nella Trattoria da Bruno. Malgrado la location (in Calle del Paradiso) per noi è stata un’esperienza infernale: locale da cancellare dalla memoria e da ogni posto in cui figuri. Avevo avuto un premonitore brivido lungo la schiena quando ho visto una comitiva di cinesi seduta all’interno ed una coppietta di stranieri nordici che fotografava il suo piatto di bavette all’astice. In effetti, per due tagliolini agli scampi e radicchio, peraltro a 15 euro al piatto (erano tagliatelle e non c’era la minima traccia ne’ degli scampi ne’ del radicchio ma, per non turbare il buonumore della mia compagna, stanca ma contenta di essere di nuovo a Venezia, non ho protestato troppo), delle seppie al nero (scongelate) un gran misto di baccalà (indescrivibile… in negativo) e mezzo litro di prosecco, abbiamo speso 68 euro più 8 di servizio (il 12%). Cena obbrobriosa al prezzo più caro pagato a Venezia in tre giorni, ben mi sta: io che chiedo consigli e faccio ricerche per cercare di mangiare degnamente in localini di onesto livello, mi sono lasciato corrompere dalla stanchezza di Claudia. Per fortuna, nel pomeriggio, quando Claudia non era ancora stanca, mi aveva dato retta e ci eravamo fermati in uno degli ultimi veri bacari di Venezia, il Vecio Forner (Campo San Vio - Dorsoduro 671B), proprio dietro la fondazione Peggy Guggenheim, ed avevamo fatto il pieno: per 16,10 euro abbiamo gustato uno “stecco” con fritto di verdure, delle bruschettine con mortadella e carciofini, pomodoro essiccato e lonza, prosciutto con tartufo; poi delle classiche ed ottime sarde in saor con uvetta e pinoli (immancabile la cipolla dolce in quantità pari alle sarde) e due bei bicchieri di Chardonnay Sorai di Gini. Ottima esperienza, almeno nel pomeriggio.
Il secondo giorno è dedicato a Murano: il tempo volge al coperto ma fa più caldo del giorno precedente. Dopo aver passeggiato lungo le sponde dei canali ed aver guardato tutte le 18.657 vetrine dedicate all’arte vetraria (dai classici pescetti e famigliole, che trovi ormai in tutti i negozi a mille lire, fino a lampadari altri tre metri)
e dopo aver visitato la chiesa di Santo Stefano, con la sua splendida sagrestia lignea, andiamo a mangiucchiare qualcosa alla Busa della Torre, in Campo Santo Stefano (041 739662). Per 59 euro, di cui 6 di servizio già calcolati (il solito 12%), mangiamo dei buoni spaghetti con i Caparossoi (vongole) e degli ottimi spaghetti alla Busara (con scampi freschi – primi buoni ed abbondanti le porzioni), un piatto (in verità piccolino) di verdure grigliate ed UN (bel e buon) filetto di branzino con olive, capperi e pomodorini, con contorno di insalata e patate novelle al forno. La sorpresa, qui, è stata di vedermi portare il piatto due volte (contorni compresi): infatti il cameriere mi dice che il piatto consiste in DUE filetti di branzino e che mi sta portando il secondo in un altro piatto in caso voglia farlo assaggiare alla mia compagna. Servizio cortese e simpatico. Un buon posto da consigliare malgrado lo scempio del tavolo vicino al nostro: due coppie di americani iniziano il pranzo con un bel caffè americano macchiato con il latte, per poi proseguire con due fritture di calamari, innaffiate di Coca cola, e due lasagne, ricoperte di Tabasco.
La sera, dopo averlo adocchiato nel pomeriggio, ceniamo al Casin de’ Nobili (Dorsoduro 2765 - 041 2411841): un locale arredato in modo strambo, tipo Buca di Sant’Antonio a Lucca, con fotografie di inizio secolo, oggetti della tradizione, foto di scena di film degli anni ’50 ecc.. Il personale è cortese e rapido e si mangia veramente bene (anche immense pizze). Optiamo per due risotti con zucca e speck croccante, proseguiamo con un carpaccio di tonno e spada (non affumicati) ed una affascinante insalata di mazzancolle appena scottate con scaglie di mandorle, pinoli e Grana. Per finire un semifreddo alla cannella e caramello, veramente da fare il bis. Tutta la cena è accompagnata da un Bianco di Custoza gradevole e profumato, che ben lega soprattutto con i secondi. Con acqua e 2 caffè 57,70.
La terza giornata è dedicata alla sponda di destra di Venezia: attraversando il ponte dell’Accademia si va a San Marco, dove ci fa riflettere il fatto che con il semplice contenuto delle vetrine di uno solo dei due lati lunghi di Piazza San Marco si può debellare la fame in Africa. Da San Marco si risale fino al Ghetto. A metà strada avevo già adocchiato il giorno prima (e sapevo già dove trovarlo grazie alla segnalazione che l’amico Bruno Cassol mi aveva fatto del sito
www.magnarben.it, grazie ancora Bruno!) il locale Vini da Gigio (Cannaregio 3628A - 041 5285140). Locale molto carino, caldo ed intimo, lungo la sponde di un piccolo canale, con personale veramente cortese e simpatico. Forse il miglior pasto a Venezia: spaghetti “Mori” (al nero di seppia) con olive taggiasche, dadolata di tonno e pachino (piatto da ricordare per la pienezza dei sapori) e ravioli con ripieno di ricotta e rucola su zabaione di Taleggio (anche qui un tripudio di sapori), due piatti eseguiti a regola d’arte. Di secondo per me seppie alla veneziana (al nero) con polenta, tenerissime e saporite, niente a che vedere con quelle di due sere prima, per Claudia tre praline di formaggio fritto con polenta. Il tutto accompagnato da un Gambellara Sassaia 2000 dell’Azienda La Biancara. Con acqua e due caffè (per un totale di € 61,50) siamo pronti a far ripartire le gambe. La sera si torna al Casin de’ Nobili che, come recita la scritta in inglese sui tovaglioli, sorge in un giardino di un antica casa di tolleranza frequentata dalla nobiltà veneziana, da qui in nome del locale. Il tovagliolo invita anche a non cedere soltanto ai piaceri della carne ma a godere dei piaceri gastronomici della Serenissima e noi obbediamo optando per spaghetti gamberi e carciofi (piccoli e molto saporiti), per un piatto immenso di verdure grigliate (addirittura con finocchi, cavolini di Bruxelles ed indivia belga, non le solite zucchine, melanzane o peperoni), un filetto di branzino con asparagelle ed un piatto di formaggi (di fossa, ubriaco e parmigiano stagionato 24 mesi) accompagnati da una deliziosa mostarda di amarene, appena piccante di senape. Per chiudere in bellezza una bavarese alle amarene ed un millefoglie al cioccolato fondente. Su tutto un buon Merlot dei Colli Euganei. Il tutto al prezzo, già visto la sera prima, neanche a farlo apposta, di € 57,70. Purtroppo la vacanzetta romantica è finita e torniamo tra le grinfie della suocera.


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