22 dicembre 2006

AUGURIIIIIIIIII !!!!!!!!!!!!!!!!!!!

A TUTTI QUELLI CHE VERRANNO A FARMI VISITA IN QUESTI GIORNI DI FESTA AUGURO UN 2007 PIENO DI GIOIE E SERENITA' (.........MAGARI ANCHE QUALCHE SOLDINO IN PIU' NON GUASTA HEHEHEHE)


BUON NATALE !!!!!! E, MI RACCOMANDO: NON MANGIATE TROPPO :-D


15 dicembre 2006

LE FESTE ROMANE: LA BEFANA

Con l'avvicinarsi dell’anno nuovo iniziamo a parlare delle feste romane, sia di quelle ancora in vigore che di quelle oramai sparite, magari soppiantate da altri festeggiamenti forse meno popolari ma più redditizi economicamente.
Omettiamo di parlare dei mille presepi che, in questo periodo, vengono allestiti nelle chiese romane (il più famoso della tradizione romana era quello di Santa Maria dell'Ara Coeli, mentre ora si possono visitare quelli presso la chiesa di Santa Maria in Via, dietro Via del Corso, e l'esposizione fissa di presepi, provenienti da tutto il mondo, in Piazza del Popolo, presso la Chiesta di Santa Maria del Popolo).
Ovviamente, essendo l’inizio dell’anno, non si può non iniziare che dalla festa della Befana (storpiatura del termine Epifania, derivante dal greco Epì fanèia = manifestazione : Epifania – Pìfania – Beffanìa - Befanìa – Befana).

Questa festa, di origine pagana, forse una delle più sentite a Roma, ricordava nel calendario della Chiesa d’Oriente la natività di Cristo e raffigura la “manifestazione” del Verbo che si è incarnato in Gesù. In seguito la data della nascita di Cristo venne stabilita, per editto papale, al 25 dicembre ma, soprattutto a Roma (tradizione oramai persa), ci si continuò a scambiare i doni il giorno della Befana e non la notte di Natale, proprio in ricordo dell'arrivo dei Re Magi.
La storpiatura del termine ha, con il passare degli anni, portato alla personificazione del personaggio della Befana ed il significato stesso della festa cristiana si fonde con elementi folcloristici. L’iconografia del personaggio è ormai ben definita: una vecchina brutta e sciatta, con un gran naso ed un gran mento (a Roma “'a scucchia”) vestita di un gonnellone scuro ed ampio, un grembiule con le tasche, uno scialle, un fazzoletto o un cappellaccio in testa, un paio di ciabatte consunte, il tutto vivacizzato da numerose toppe colorate.

La Befana
La Befana, una figura a metà tra una strega ed una portatrice di doni, era "invocata" dalle mamme (al pari dell'Uomo Nero, del Gatto Mammone, dell'Orco, e del Lupo cattivo) per tenere quieti i bambini, visto che con il suo aspetto trasandato era proprio spaventevole ma, come si sa, le cose brutte e spaventevoli attirano di più e, proprio per questo, alcuni uomini (i cosiddetti Befanari) davanti le bancarelle con i dolciumi, si mascheravano da Befana e facevano smorfie e versi ai bambini per spaventarli: i bambini però, incuriositi dall'aspetto truce della Befana ed attirati dai dolci, si riavvicinavano dopo pochi istanti al bancone e ricevevano dal Befanaro la calzetta piena di frutta secca, arance, mandarini, mostaccioli e torroni.
La tradizione vuole che la Befana (da molti bambini considerata la “moglie” di Babbo Natale - ma una volta considerata dal popolino la personificazione della moglie del vecchio anno, ormai passato, vecchio), nel corso dell’anno fabbrichi giocattoli per i bimbi buoni, mentre a quelli cattivi e disubbidienti spettano cenere e carbone. Nel suo lavoro può essere aiutata dai Befanini ed il loro comune domicilio è “stabilito”, sempre secondo tradizione, in Via della Padella, al numero 2.
Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavalcioni di una scopa e con un sacco colmo di giocattoli e dolciumi (tra cui il famoso carbone dolce: dei veri e propri tocchi di zucchero nero),

Il carbone di zucchero
passa sopra i tetti e, calandosi dai camini, riempie le calze lasciate appese dai bambini sulla cappa della cucina (che sta proprio ad indicare il focolare, segno di buon auspicio, abbondanza e felicità). I bimbi, da parte loro, dovranno lasciare per la vecchia, un mandarino o un’arancia e un bicchiere di vino (in tempi più moderni ci si può concedere una fetta di panettone o un tocchetto di torrone).
Il mattino successivo, insieme ai regali, i bimbi troveranno le bucce dell’arancia o del mandarino e l’impronta della mano della Befana sulla cenere sparsa nel piatto, segno che la vecchina è veramente passata a lasciare i doni. Chi di noi, da piccolo, non ha tentato di resistere al sonno per cercare di sbirciare dal buco della serratura della porta della cucina, se la Befana sarebbe veramente venuta a portarci doni o carbone? Ovviamente tutto ciò costringeva i nostri genitori ad alzarsi nel pieno della notte per sistemare i dolci nelle calze ed i giochi sulla macchina del gas e sul tavolo.

Fino alla fine dell’800 la festa della Befana si è tenuta in Piazza Sant’Eustachio, per poi passare a Piazza Navona a causa delle migliaia di popolani recantisi, ogni anno di più, alle tradizionali baracche e bancarelle nelle quali, fino ad una trentina d’anni fa, campeggiavano splendidi presepi artigianali, marionette, burattini e dolciumi di ogni tipo.
Panoramica di Piazza Navona con le bancarelle della Befana (dall'inizio di dicembre al 6 gennaio)
Ora il tutto è purtroppo, ma inevitabilmente, virato verso il commerciale e vi si trovano oggetti facilmente reperibili anche nei supermercati. Un classico è però la mela stregata: una mela ricoperta di zucchero caramellato rosso fuoco, sul quale migliaia di ragazzini, romani e non, hanno lasciato i loro primi denti da latte.


La mela stregata
Qualche anno fa la ricorrenza festiva della Befana venne addirittura abolita ma molte petizioni, di grandi e piccini, effettuate anche attraverso alcuni giornali a tiratura nazionale, costrinsero i governanti a ripristinarla dopo poco tempo.
Qui sotto inserisco la poesia che mio padre (un po’ di orgoglio filiale ogni tanto ci vuole) scrisse al Messaggero, che la pubblicò insieme a molte altre.

PRO BEFANA

Proteste tante, forti so' li strilli
Pe’ quello sbajo fatto da li granni
Che, ’ncitrulliti e carichi d’affanni,
Levòrno la Befana da ‘mbecilli.

Ma de botto, così, senz’avvertilli,
A ‘sti pori ragazzi, co’ l’inganni,
J’avrebbero fregato ppe' tant’anni
Er di’ de li balocchi e li gingilli.

Sai che te dico, serio, senza boria:
Nun se ponno tocca le tradizioni
Che der popolo nostro so’ la storia!

Allora su’, famo ‘na cosa strana,
Strillamo: "Forza, nun famo li cojoni!
A ‘sti fiji ridamo la Befana!"


Roma,15 gennaio 1982



Vabbe'...... è pur sempre una donna al volante :-D

11 dicembre 2006

'MMAZZ' 'HE BOTTA AHO !!!!!!

Ma 'na vorta ogni ottant'anni je se pò pure concede... bravi cugini.

LAZIO 3

ROMA gnente

06 dicembre 2006

ETTORE ROESLER FRANZ

Voglio ora rendere omaggio, in prossimità del centenario della morte, ad uno dei miei pittori preferiti: Ettore Roesler Franz (di cui avevo già accennato in un precedente post).

Nato a Roma l'11 maggio 1845, da una famiglia di banchieri e diplomatici di origine tedesca (e non svizzera, come per diverso tempo si è ritenuto), si è reso famoso per i suoi acquerelli dedicati alla Roma dell’800.
La spinta iniziale verso la pittura gli venne probabilmente dall'aver voluto seguire le orme di suo cugino Giuseppe, che morì ad appena 13 anni nel 1851, ma che fu un promettente acquarellista (tre suoi lavori si trovano nel Museo di Roma di Palazzo Braschi), tanto che sul suo monumento funebre nella basilica di San Lorenzo in Lucina é scolpito un pennello.
Quella che lui stesso definì “Memorie di un’era che passa” è la prima delle tre raccolte, di 40 tele ciascuna, dedicate a Roma e che fu acquistata per intero, per 18.ooo Lire, dal Comune di Roma nel 1883 in occasione della "Mostra Nazionale ed Internazionale di Belle Arti" con la quale si inaugurò il Palazzo delle Esposizioni in Via Nazionale e che, per prima, portò notorietà al pittore. Il Comune, conscio che la Roma dell‘800 sarebbe presto scomparsa, vittima dei mutamenti e degli sventramenti resisi necessari per renderla una città “al passo con i tempi”, “investì” molto su Roesler Franz: in occasione della suddetta mostra, su un totale di 50.000 Lire stanziate per l’acquisto di tele e manufatti destinati ad arricchire i musei comunali, appunto più di un terzo furono riservati alla prima serie di acquerelli di Roesler Franz; le rimanenti due serie di 80 tele (praticamente tutte della misura 75x53 cm.) furono acquistate per 35.000 Lire nel 1908, dopo trattative durate almeno 5 anni.
La cosa che forse colpisce maggiormente di Roesler Franz è come critici ed artisti lo elogiassero già all'epoca per il suo operato, considerandolo l’”ultima spiaggia” (insieme forse soltanto alle fotografie degli
Archivi Alinari) per significare ai posteri l’aspetto della Roma di fine ‘800, com’era prima degli smembramenti, decisi dal piano regolatore del 1872, e come andava mutando per gli apportandi ammodernamenti. Interessante, nelle sue tele, anche la riproduzione di scene di vita quotidiana, che ci mostrano Roma in fin dei conti come una città-paese, per l’abbigliamento, gli usi e, non da ultimo, per il fatto che luoghi ora di alto interesse artistico ed archeologico come i Fori Romani, San Giovanni e molti altri fossero adibiti a pascolo per le greggi. Ettore Roesler Franz viaggiò molto ed in Inghilterra fu uno dei più apprezzati pittori italiani del periodo; parlava correntemente Inglese, Francese e Tedesco ed espose più volte a Parigi, Londra, San Pietroburgo, Berlino, Dresda, Stoccarda, Monaco di Baviera e Vienna, nonché in Olanda e Belgio. Un suo acquarello si trova nel Museo "Art Gallery of New South Wales" di Sydney (Australia), mentre altri due acquarelli nel Museo di Southampton (Gran Bretagna).
La caratteristica, però, che lo rese forse unico in quel periodo è la meticolosità, tanto che non si muoveva mai senza la sua macchina fotografica, con la quale immortalava tutti i particolari che riportava poi su tela, ed il suo libriccino in cui segnava ogni più piccola curiosità che colpiva il suo sguardo: giochi di luce tra i rami, la diversità dei colori di uno stesso albero, le diverse sfumature del terreno... Per quanto riguarda i materiali, poi, era molto pignolo: carta, pennelli, colori e il relativo raccoglitore erano tutti di provenienza inglese e da lui personalmente scelti. Malgrado ciò, una volta, nei dintorni di Tivoli, dovette costruirsi un pennello con peli strappati dalla coda di un somaro e legati con uno spago.
Il suo motto era “La sincerità fa l’artista grande” e lo si poteva leggere all’ingresso del suo studio privato che, con grande disponibilità, lasciava aperto a tutti, ogni giorno dalle ore 14 al tramonto. Dipinse, nell’arco di 25 anni, 120 vedute dedicate a Roma (divise appunto in tre serie) e quasi tutte possono essere definite “pitture in tempo reale” poiché si recava nei luoghi che intendeva ritrarre fino a pochi giorni prima dell’inizio dei lavori di smembramento e prendeva appunti su tinte, colori e particolari, faceva schizzi o scattava fotografie per poi scegliere il miglior angolo di visuale da riportare su tela. Quindi le immagini che ammiriamo nelle sue tele sono, di fatto, l'ultima immagine esistente di quel luogo, appena prima che venisse distrutto. La sua è una straordinaria Roma fatta di scorci, panoramiche, angoli nascosti ma anche giardinetti, cortili, piazze: la Roma popolare e popolana delle insegne delle osterie, dei pergolati, del fiume, dei sampietrini e delle pozzanghere che riflettono il cielo… una città semplice ed a misura d’uomo (che sarebbe poi scomparsa nel giro di un decennio). La seconda e la terza raccolta (1891) sono state da lui stesso intitolate “Roma Pittoresca” e vennero esposte con gran successo nel 1897, insieme ad altri acquerelli raffiguranti la campagna romana e Tivoli, città da lui molto amata (vi comprò anche casa) e della quale divenne cittadino onorario nel 1903 (onorificienza che ricambiò col il dono della tela “Ponte Lupo – Poli”, del 1898, attualmente affissa nello studio del Sindaco di Tivoli). I 40 acquerelli della seconda raccolta “Roma Pittoresca”, in particolare, sono così suddivisi: i primi tre sono degli scorci senza titolo, quelli dal 4 al 12 raffigurano il Tevere; dal 13 al 19 "Il Ghetto e il Portico d’Ottavia"; dal 20 al 22 “Presso Piazza Montanara”; dal 23 al 31 “Transtevere”; dal 32 al 40 “Al di qua di Ponte Rotto”. A questi titoli, dati dal pittore stesso, seguono delle note: il segno * contrassegnava delle opere ritraenti soggetti in parte o completamente demoliti; il segno ** i soggetti di futura demolizione: alla fine si può osservare che di 37 soggetti identificati nelle tele soltanto 4 sono sopravvissuti alle demolizioni di fine secolo o successive.
Nel 1875 fondò la Società degli Acquarellisti, rimasta attiva fino al 1908.
Malgrado l’artista stesso auspicasse che “...la collezione dovrebbe essere posta in una sala speciale con una grande carta topografica della vecchia Roma in cui io darei indicazioni dei luoghi dove sono stati ripresi i quadri e questo faciliterebbe gli studiosi delle future generazioni nel capire quale era l'aspetto di Roma prima dei presenti mutamenti”, purtroppo la sua richiesta ha solamente in modo parziale trovato accoglienza e, tra l'altro, la collezione non è più completa perché dei 120 acquerelli acquistati dal Comune di Roma se ne è perso uno (quello raffigurante "Palazzo Mattei alla Lungaretta") a Colonia nel 1966 durante una mostra itinerante e da allora non è stato più ritrovato. La maggior parte delle opere, 93, sono custodite al Museo di Roma (Palazzo Braschi) in piazza San Pantaleo, mentre i rimanenti 26 acquarelli si trovano nel Museo di Roma in Trastevere (già Museo del Folklore) in piazza Sant'Egidio.
La sua opera non è costituita di soli acquerelli (dipinse infatti anche diverse tele raffiguranti paesaggi degli Appennini Abruzzesi, di Ninfa, di Tivoli e della campagna romana) ma anche di alcuni olii, bozzetti a matita o tempere. Affermava, comunque, che l’acquerello fosse “...il mezzo più acconcio a riprodurre con verità le vedute campestri e specialmente le trasparenze dei cieli e delle acque”.
Ebbe un unico allievo, il tiburtino Adolfo Scalpelli (che per testamento ereditò tutti i bozzetti, gli schizzi, i disegni, gli acquarelli non finiti dell'artista, nonché le sue foto, e che morì poi ad appena 29 anni nel 1917 combattendo sull'Altipiano della Bainsizza durante la prima guerra mondiale). Morì il 26 marzo del 1907, lasciandoci immagini di una Roma che, purtroppo, non esiste più.

Qualche tela di Ettore Roesler Franz...


Il Ghetto al Portico d'Ottavia

Stagni di Maccarese con due raccoglitori di fascine in primo piano sotto un albero


Veduta di Villa d'Este con sullo sfondo due suore ed i Monti Cornicolani (e com'è oggi)

Altra immagine di Villa d'Este a Tivoli (sulla tela e dal vero)

Il Bosco Sacro della Ninfa Egeria dopo il temporale

Barca sul Tevere presso Ponte Milvio con la cupola di S.Pietro sullo sfondo

Case medioevali in Via di Santa Bonosa attigue alla Torre degli Anguillara.
Sullo sfondo la cupola di San Carlo ai Catinari.

Largo di Santa Bonosa

Via del Campanile in Borgo con la Chiesa di Santa Maria in Traspontina.
Sullo sfondo il Passetto di Borgo.

Schizzo raffigurante Bambini sotto un albero in riva al Tevere alla Salara dopo Ponte Rotto


L'Isola di San Bartolomeo (Tiberina)

Largo Magnanapoli e la Torre delle Milizie con, sullo sfondo, la Torre del Grillo


Due scene di vita quotidiana nel Ghetto

L'Arco de' Tolomei

L'Albergo dell'Orso

E qualche fotografia scattata dall'artista...

Scorcio a Santa Bonosa

Ripa Grande

05 dicembre 2006

CUCINA ROMANESCA 1: CARCIOFI ALLA GIUDIA

E' un piatto tipico della tradizione ebraico-romanesca, di facile realizzazione e di grande gusto (tra l'altro è divertente gustare, ad uno ad uno, i petali del carciofo).
Si prende un bel carciofo romanesco a persona (essendo golosi anche due :-D)

BELLI !!!!!!..................BUONIII !!!!!

e si monda il gambo (lasciandone solo il cuore lungo circa 8-10 centimetri) togliendo anche il primo strato (al limite i primi due se il carciofo risulta ancora duro) e le punte dei petali.

I carciofi con i gambi mondati (è bene tagliare anche la punta dei petali, che può risoltare dura e spinosa)

Mentre si puliscono gli altri carciofi quelli mondati si mettono a bagno in una bacinella o direttamente nel lavandino, dopo aver spremuto nell'acqua almeno un limone (per non farli annerire). Si asciugano poi i carciofi e, afferrandoli per il gambo, si "battono" leggermente su un piano per farli aprire leggermente, così da facilitarne la cottura anche all'interno. Si immergono poi, uno alla volta, nell'olio (rigorosamente extra vergine di oliva) bollente (circa un litro) messo in un pentolino largo almeno 20 centimetri ed alto una trentina.

Mi raccomando: il pentolino deve essere capiente perchè il carciofo si "aprirà"

La frittura deve durare dai 10 ai 15 minuti (a seconda della grandezza del carciofo). Quando il carciofo comincia ad indorarsi ed ad "aprirsi" come un girasole, schizzare qualche goccia d'acqua fredda nell'olio: questo renderà ancora più croccanti i petali. Si mettono poi i carciofi a scolare su carta assorbente e si "condiscono" con un pizzico di sale e, volendo, di pepe.

BUON APPETITO e, mi raccomando,................ LECCATEVI LE DITA :-D